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Storia della Gastronomia: La tavola dei Romani. (1a parte)

01/03/2008
Gastronomia e banchetto nell'Impero Romano.

La cucina assurge ad arte autonoma, svincolata dalle necessità nutrizionali e laicizzata rispetto alla sacralità del banchetto e delle libazioni, nell'intenso periodo che vede a Roma il trapasso tra la Repubblica e l'Impero.
Non che fossero mancati in epoche ed aree geopolitiche differenti ghiottoni e raffinati gastronomi (chè anzi da questo punto di vista la Magna Grecia aveva raggiunto l'acme, e a tale cucina si ispirarono poi i gastromanes greci e romani): è però a Roma che l'ars magirica (la culinaria, diremmo noi) diventa assoluta, fino a trascendere nella perversione vomitoria, il mangiare senza nutrirsi, per il solo gusto di assaporare le portate e i vini e di godere del banchetto, delle esibizioni delle flautiste e delle danzatrici, delle più o meno dotte conversazioni. Diventa, insomma, una gastronomia «astratta».
Una estrema raffinatezza culinaria si accoppiò ad una accurata regìa, quasi teatrale, del banchetto, a partire dai letti tricliniari, dagli addobbi delle sale e dal vasellame di pregio fino a comprendere veri e propri spettacoli.
Il poco che ci rimane di questa grande cucina è affidato alla satira di poeti affamati o di aristocratici che disprezzavano le ostentazioni da nouveaux riches di troppi homines novi: quindi ci è tramandato caricaturalmente. I nomi sono noti: Marziale, Orazio, Catullo, Giovenale ed il grandissimo Petronio. Altro possiamo desumere da trattati di medicina o di agricoltura o da vere e proprie enciclopedie (Catone, Plinio, Varrone, Columella, Celso, Galeno), da leggi suntuarie (che riguardavano restrizioni alimentari, parenti dei nostri provvedimenti di austerity, come una lex Aemilia che proibiva, inapplicata, il consumo, anche privato, di frutti di mare e ghiri, per i quali ultimi i Romani - che li allevavano ed ingrassavano in appositi gliraria - hanno nutrito per un certo periodo una smodata passione) o da editti sui prezzi (calmieri, praticamente), anch'essi assolutamente inosservati, il più ampio e famoso dei quali è quello di Diocleziano del 301 d.C. .
Dallo pseudo-Virgilio dell'Appendix ci viene invece la ricetta del moretum: una densa crema di erbe e formaggio, lavorati nel mortaio per farne una specie di «salsa» con cui condire la «focaccia» di farro (che poi altro non è se non la versione arcaica, non lievitata, del pane, da cui deriva anche nel nome, panis focaceus, il «pane» cotto nella cenere).
Importantissima è un'opera tarda (fine del II secolo d.C.) dell'erudito greco-egizio Ateneo di Naucratis, bibliotecario in Roma di Publio Livio Larense (discendente di Varrone, dal quale aveva ereditato migliaia di volumi), I Deipnosofisti, ovvero I sofisti a banchetto o La cena dei sapienti, come suona il titolo nella traduzione latina). Ad Ateneo dobbiamo, oltre ad informazioni sulla cucina dell'evo antico e sugli usi conviviali, citazioni dai grandi gastronomi dell'antichità ed un elenco di nomi (in qualche caso anche di titoli) che altrimenti sarebbero obliati del tutto. Altre utili notizie sono nei Saturnali di Macrobio, un altrimenti ignoto autore pagano del V secolo d.C., forse africano, dai quali attingiamo anche cronologia e principali caratteristiche delle leggi suntuarie.
Del mare magnum della trattatistica romana in materia, perduti i ben tre testi di Caio Mazio, che fu gastronomo, selezionatore di una particolare mela, amico personale di Giulio Cesare, così come le opere di Marco Ambivio e Mena Licinio, ci è rimasto soltanto, in copie medievali che risalgono ad una specie di mutilo ed interpolato compendio del III-IV secolo d.C., il manuale attribuito (o dedicato) al grande Marco Gavio Apicio (questi, ma non il trattato, è anche citato da Ateneo), intitolato Ars magirica o De re coquinaria. A quest'opera dobbiamo anche la pessima fama che oggi circonda la cucina romana; pessima fama legata in particolar modo, oltreché a traduzioni aberranti sul piano gastronomico, alla onnipresenza del garum o liquamen (un nome, quest'ultimo, che è tutto un programma): la famosa e famigerata salsa di pesce che accompagnava le cene romane dall'insalata al dolce ed alle frutta.
Il garum gode di pessima reputazione soprattutto grazie (si fa per dire) a Plinio, che nel suo moralismo conservatore lo condannava quale «costoso putridume di pesce» e pretendeva che venisse prodotto esclusivamente dalla putrefazione di interiora ittiche; in realtà quest'ultimo era un succedaneo del vero garum, che era a base di pesce di pregio fatto macerare sotto sale con erbe aromatiche quindi filtrato. Qualcosa di non molto diverso, suggeriscono i testi di cucina, dal Nuoc-nam indocinese; o - per quanto di sapore più forte e più speziato - dalla «nostra» salsa Worcester (che è a base di acciughe liquefatte in aceto con erbe aromatiche e una punta di melassa: quasi la ricetta del miscuglio fra il garum e l'oxyporium di Columella, Plinio ed Apicio: una salsa agrodolce, quest'ultima, a base di aceto miele datteri pepe zenzero cumino e ruta). Il garum sostituiva quasi completamente - come avviene per la salsa di soia nei paesi orientali - l'uso del sale in cucina, e se ne faceva presumibilmente un uso parco, come per il miele, usatissimo anch'esso ed al garum accoppiato (i Romani adoravano l'agrodolce, come noi stiamo reimparando a fare grazie alla diffusione capillare della cucina cinese, sia pure in versione approssimativa, che data ormai dall'inizio degli anni Ottanta del XX secolo). Sconosciuto nell'età dei Re ed in quella repubblicana (se non verso la fine di questa), il garum, di provenienza greca (ma in Ellade era approdato - tardi, perché non risulta conosciuto in età classica - dall'Oriente, traendo probabilmente origine da una mesopotamica salamoia di cavallette chiamata shiqqu) dilagò a partire dal I secolo d.C. nella cucina romana, di cui, insieme con l'arcaica puls di farro (polta, una specie di polentina semiliquida) dell'età dei Re (e della Repubblica: ma in campagna si continuò a mangiarla fino a tutto il Medio Evo ed oltre, fino all'avvento del mais ed alla nascita della “vera” polenta) costituisce il marchio.
Apicio non è un cuoco, anche se lo è diventato per antonomasia: è invece un buongustaio, sperimentatore inesausto di ricette, materie prime, incredibili accoppiamenti. Ricco, dopo aver consumato gran parte del suo patrimonio per soddisfare la sua ricerca gastronomica e per allestire banchetti, dinanzi alla prospettiva di dover cambiare tenore di vita preferì suicidarsi col veleno. Seneca, che lo detestava per aver corrotto con la sua filosofia gastronomica il meglio delle giovani generazioni, che prima del suo successo avrebbe optato per la filosofia, afferma che la pozione velenosa fu la più salutifera fra quante Apicio avesse gustato. Ma Apicio era un raffinato buongustaio, non un crapulone; la sua ricerca di materie prime sempre più particolari ed esclusive (fino ad armare una nave per recarsi nelle acque della Libia al solo scopo di acquistare i locali gamberi, che aveva sentito descrivere come i più grossi esistenti: verificato ancora in rada che erano più piccoli di quelli italiani, invertì la rotta e tornò a casa...), alla luce delle moderne acquisizioni e del gusto moderno appare meno folle di quanto per secoli non sia stata considerata. Non sappiamo se la carne di pavone abbia davvero un sapore indistinguibile da quella di pollo, come pretendeva Orazio inveendo contro i cafoni arricchiti; sappiamo per certo che persino la carne di un capretto o un agnello è diversa a seconda della regione di provenienza e del vitto seguito; figuriamoci poi pesci od ostriche. Insomma, l'ironìa di Giovenale su Montanus, che dal primo boccone distingueva un'ostrica del Circeo da una degli scogli del Lucrino, è oggi abbastanza fuor di luogo (si cerchi di far confondere una Bélon con una Marenne od altra ostrica ad un intenditore odierno...); il Marcio Filippo citato da Orazio e Columella che in quel di Cassino, assaggiato un boccone d'una spigola (pesce di mare) allevata in acqua dolce, lo risputò esclamando «ch'io sia dannato se non l'avevo creduto un pesce!» non è uno snob ed estenuato decadente, come scrivono i moralisti: è semplicemente un buongustaio che s'aspettava il sapore di un pesce e se ne vede servire un pallido surrogato, dal sapore probabilmente fangoso: è come servire oggi ad un gourmet uova di lompo e spacciargliele per caviale Beluga Malossol; e non parliamo della moderna ossessione per la provenienza dei vini, per le percentuali di uvaggi, per le differenti annate, per la delimitazione dei crus e per la esplicitazione dei procedimenti di vinificazione: altro che la fissazione per il vino opimiano - ovvero risalente al consolato di Opimio, 121 a.C., una annata mitica come il 1964 per noi - dei buongustai romani!

(7. continua)