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L'aratro di ferro

01/11/2006
Nel numero precedente della nostra rivista (luglio 2006) abbiamo trattato dell’aratro a chiodo (fòrca o furchìnu), in legno con vomere di ferro,  di tradizione mediterranea dalle origini antichissime, ora  completeremo l’argomento, esaminando  l’aratro tutto di  ferro (aratìnu). 
Con l’avvento dell’aratro di ferro nell’agricoltura le cose cambiarono ancora in meglio e la produttività fece un balzo in avanti; infatti, disponendo di uno strumento più robusto, più comodo e più stabile nel lavoro, fu possibile dissodare la terra più profondamente senza il timore che l’aratro potesse rompersi e fu possibile anche risparmiare al contempo energie all’aratore.
Questo importante attrezzo agricolo, di grande rilevanza economica, che ha permesso all’uomo di effettuare  lavori, con maggior rapidità rispetto alla vanga, è rimasto tale, pressoché invariato, attraverso i secoli. Fermo restando il principio dinamico, sempre uguale, ha subito modifiche minime e piccoli aggiustamenti fino alla prima metà del secolo XVIII, allorché in Inghilterra, durante la rivoluzione industriale, fu costruito il primo aratro in ferro, modello Rotherham, divenuto subito un successo commerciale. A questo aratro, con vomere in acciaio,  seguì nella seconda metà del XIX sec. quello a due ruote, con posto a sedere per il guidatore, mentre dal 1890 furono utilizzati aratri con i primi trattori a vapore;  questi furono soppiantati poi da  quelli a trazione meccanica, dotati di aratri a due o più vomeri, entrati in uso con l’introduzione del trattore multiuso e con lo sviluppo degli pneumatici in gomma a bassa pressione.
Se l’aratro tutto in ferro si diffuse in Europa agli inizi del 1800, in Puglia venne introdotto tra la fine dello stesso secolo e l’inizio del ‘900, trovando ampia propagazione subito dopo la prima guerra mondiale.
Nel nostro museo della civiltà del vino primitivo sono conservati quattro esemplari di aratro a chiodo, in legno e ferro, ed otto aratri con struttura completamente in ferro e parti staccate di essi. Tra questi ultimi è impossibile riconoscere  originali o riproduzioni fedeli di aratri inglesi (del tipo (Busby, Howard, Ransomes), o tedeschi, o italiani (Barelli, Lambruschini, Ridolfi,) o americani, o forme intermedie di tipi di aratro, perché tutti i modelli presenti risultano essere stati prodotti in loco da maestranze locali, nelle officine dei nostri abili maestri fabbri ferrai. Tra questi abilissimi artigiani, sia detto per inciso,  emergeva tra tutti, quale autorità indiscussa per intelligenza e ingegnosità, Pietro Tarentini, morto quasi centenario, che esponeva la sua produzione (sul Corso XX Settembre nei pressi della chiesa di Santa Maria a Manduria)  in occasione della famosa fiera di marzo (fera pessima o fera ti li ciucci), in concorrenza con le ditte forestiere e per soddisfare le aspettative dei molti clienti convenuti specialmente dai paesi limitrofi. Si può tutt’ al più  ragionevolmente ipotizzare una derivazione da copie di prototipi, importati dall’Europa o dall’America, adattati poi alla meglio, per le esigenze della nostra agricoltura, dall’abilità degli artigiani del luogo. Non è inoltre da escludere, come afferma qualche informatore intervistato, che vomere e versorio di ghisa malleabile (ambedue gli elementi prendono il nome di cambàle nel nostro dialetto), prodotti da industrie metallurgiche d’altri paesi, fossero assemblati alle restanti parti dell’aratro nelle botteghe sul posto.
I pezzi che compongono l’aratìnu si distinguono in tre categorie: la prima categoria comprende i pezzi lavoratori, la seconda categoria i pezzi regolatori, la terza categoria i pezzi che servono di collegamento alle varie parti.
Pezzi lavoratori sono il coltro (curtièddu o curtiddòni), il vomere (òmbre) e  l’orecchio o versorio (rècchia). Pezzi regolatori, che servono a dirigere l’aratro e mantenerlo nella dovuta direzione, sono: le stegole o stive (pitistèi), la bure (ura), la suola  o tallone (scarpa), il regolatore di profondità (scarciòppola) e l’avantreno, con una o due  ruote. I pezzi di collegamento sono, invece, lo stesso timone o bure al quale sono collegati i regolatori, il coltro, le stegole e quanto altro di viti, con dadi, e chiavarde che uniscono i vari elementi. 

Il coltro è una sorta di lama che serviva a tagliare la zolla in senso verticale, davanti al vomere, e permetterne il rovesciamento. Convenientemente disposto sulla bure e fissato nella voluta posizione, svolgeva anche la funzione di tagliare radici, eventualmente incontrate. Il versorio eseguiva invece l’ operazione di rovesciare una  fetta di terreno più consistente, tagliata dal vomere, mentre la suola o tallone, che teneva assieme vomere e versorio, è quel ferro strisciante che serviva a far mantenere all’aratro la direzione corretta lungo il solco.
Due i regolatori che, fissati sulla estremità della bure, consentivano al primo, abbassando o alzando il punto di attacco della barra, cui era collegata la ruota, per mezzo di un solido morsetto, di aumentare o diminuire la profondità del solco; l’altro, che agiva su una sbarra ellissoidale, disposta in senso orizzontale e munita di  un secondo morsetto, per fissarla nel punto più consono, permetteva, entro certi limiti, spostamenti determinanti una minore o maggiore larghezza del taglio della fetta di terra.
Questo aratìnu, costruito in due versioni, una più grande e l’altra più piccola, riconosciute  nelle misure numero quattro e numero sei, si prestava, agganciato ad un solo animale mediante una catena e un bilancino, ad eseguire la maggior parte dei  normali lavori di aratura su terreni ordinari.
Per un’aratura più profonda si impiegava il due ruote (lu to roti). Detto aratro, che incontrò il favore dei nostri agricoltori per la sua robustezza e praticità, specialmente quando si doveva eseguire lo scasso per piantare la vigna, era caratterizzato da un avantreno, collegato alla bure, che aveva lo scopo di aumentare la stabilità e di agevolarne la guida. L’avantreno, che si presentava costituito da un carrello a due ruote di diametri differenti, delle quali la più grande operava sul fondo del solco aperto mentre la più piccola procedeva sul terreno sodo da arare, comprendeva anche l’organo regolatore  che svolgeva le  funzioni, sopra descritte, di agevolare gli spostamenti nella direzione verticale ed orizzontale, del punto di attacco tra l’aratro e gli  animali. Anche il versorio e il vomere di questo aratro, forgiati con ottimo acciaio e sostituibili immediatamente all’occorrenza,  erano  più grandi e robusti.
Era conosciuto nella denominazione locale con il nome di aratu saccu o rudi saccu o sàcsi che  è la deformazione nel nostro dialetto  della ragione sociale della fabbrica tedesca di  Lipsia, Rud. Sack KG  (Rudolph  Sack  Società di  accomandita semplice), che  lo produceva; il marchio di fabbrica era riprodotto in rilievo, per fusione, nella parte interna del vomere e del versorio.
Commercializzato dal Consorzio Agrario Cooperativo di Manduria, era sempre impiegato con una coppia di animali (parìcchju), collegata per mezzo di una grossa catena al giogo dei buoi o, in alternativa ad un anello del  bilancino di legno ricurvo (fillanzòni), portante due bilancini più piccoli (illanzìni), per i cavalli o per i muli. L’aratro a due ruote (lu to roti) e l’aratìnu erano ambedue  monovomere; diretti a mano dall’operatore, praticavano un solo solco.