L'antica cittadina tra Taranto e Brindisi meglio nota come "l'unico paese albanese in Puglia"...
Sono tutti fuori dalla città i segreti dell’antico Salento: bisogna percorrere lame, entrare nelle grotte, respirare l’aria di masserie abbandonate per mettersi in piena sintonia con un mondo singolare, vivace, pulsante di vita… È qui che si annullano le distanze; che cogli le stratificazioni di popoli in una terra mediterranea; che riannodi il filo rosso di una storia che, di primo acchito, sembra interrotta. Prendiamo ad esempio San Marzano di San Giuseppe, nel Tarantino, al confine con la provincia di Brindisi. La cittadina è notissima per essere «l’unico paese albanese di Puglia», capace di conservare la lingua di chi vi giunse nel XV secolo con Giorgio Castriota Scanderbeg, impegnato nella lotta contro «i turchi infedeli». «La costruzione del paese rimonta al 1530 - scrisse a fine secolo XIX il geografo Gustavo Stafforello - allorché il capitano albanese
Demetrio Capuzzimati, acquistato dalla Corte di Napoli il feudo disabitato di San Marzano, e dal capitolo e Clero di Taranto, nello stesso anno 1530, il feudo limitrofo denominato Rizzi, vi stabilì i suoi seguaci e dipendenti».
Feudo non più abitato, dunque. Ma prima, chi popolava quella zona? Basta uscire fuori dal centro cittadino per rendersene conto; è sufficiente stare a Santa Maria delle Grazie per comprendere - si perdoni il bisticcio di parole - San Marzano prima di San Marzano.
È sulla strada per Grottaglie, infatti, che si trova il Santuario, dal quale è possibile rilevare una stratificazione di esperienze umane lunga secoli, prima ancora di cogliere
esperienze artistiche considerevoli, visto che la cripta conserva affreschi di non poco valore. «Il Santuario rupestre, attualmente non obbedisce a precisi schemi bizantini a causa di adattamenti per la particolare natura della roccia - hanno scritto gli studiosi locali -; mentre il corredo pittorico si attiene a stilemi iconografici», che richiamano l’esperienza artistica vetero-bizantina. Ma non si coglie appieno la bellezza del sito se non lo si inquadra nella lama; se non viene contestualizzato entro questo «solco erosivo poco profondo, tipico del paesaggio pugliese», ed entro quella caratterizzazione propria di terreni alluvionali, formatisi nel corso del tempo, che i geologi colgono in contrapposizione ai terreni rocciosi calcarei, tipici invece del territorio della Murgia. «Lungo le lame sono frequenti insediamenti rupestri», avvertono alcuni studiosi. «Talvolta gli insediamenti antropici risalgono al neolitico», aggiungono altri. E noi, del resto, di cosa parliamo?
A S. Maria delle Grazie, infatti, recenti scavi hanno evidenziato una frequentazione a partire dall’Età de Bronzo e sono state trovate anche testimonianze fittili di Età ellenistica. Ma se pensiamo che «si parte sempre dalla cripta affrescata, si parte sempre dall’edificio sacro, dal monumento in quanto tale», per giungere oltre, ecco che si deve necessariamente pensare anche qui al «monumento inserito in un certo contesto, in un habitat umano e sociale» e vi cogliamo un bell’esempio di «civiltà rupestre», per dirla con Cosimo Damiano Fonseca. Cogliamo l’importanza dell’agglomerato, in sé considerato, nel quale « si manifestavano varie forme di vita, legami e rapporti
sociali, in cui il monumento era l’esemplificazione dell’istanza religiosa, senza dubbio importante, ma non esaustiva della vita civile di coloro che vi abitavano». Avvertiamo, insomma, il problema storico complessivo, più che limitarlo a quello storico-artistico, che pure è considerevole.
«Questo centro rurale con abitazione in grotta ha una vita prospera, almeno fino al 1300 per poi decadere e spopolarsi», ha osservato Cosimo Monopoli, non prima di aver riferito che «la lama dal 1478 porta il nome “San Giorgio”, probabilmente derivante dalla dedicazione dal santo dell’ipogeo rupestre».
Ed infatti lo stesso studioso ha rilevato che «la costruzione della chiesa ipogea avviene, a partire dall’XI secolo, in due periodi: il primo fino al secolo XV, probabilmente con la dedicazione a San Giorgio e il secondo dal XVI secolo fino ai nostri giorni, dedicato alla Madonna delle Grazie». Due periodi, dunque, e due modi di concepire l’edificio sacro, con l’esperienza religiosa più antica che lì vuole un vestibolo, un’aula per l’assemblea, un nàos per l’offerta sacerdotale. A questa prima esperienza, del resto,
appartengono i tre affreschi, che fanno di questo luogo una tappa necessaria per quanti vogliono capire il Salento dei secoli andati: si nota San Giorgio a cavallo, Santa Barbara e quella Vergine col bambino, che non può non suscitare emozioni. Tre immagini e tre secoli di esperienza artistica, visto che il San Giorgio è probabilmente di fine secolo XIV, Santa Barbara è del XVI secolo mentre l’affresco delle Vergine col Bambino sembra il più antico, essendo databile alla fine del XIII secolo. Li riconosci subito, i santi, dai loro attributi iconografici. Forse che S. Giorgio sul cavallo non trafigge il drago? E S. Barbara non regge, anche qui, la piccola croce? E poi: basta leggere: Beta, alfa, ro… È l’inizio del suo nome.
«La Vergine è dipinta in trono ed è ritratta in posizione frontale. Indossa un maphorion azzurro dal bordo dorato d stelle, sopra una veste rossa…». Così inizia a descriverla
Monopoli nel suo saggio. Certamente più luminosa dovette scoprirla quel cavaliere che la leggenda vuole «miracolosamente guidato dal suo cane»
entro l’ipogeo ormai caduto nell’oblio, assieme a quelle zone ormai disabitate. Non sappiamo donde provenisse quel cavaliere. Fosse stato originario dell’Oriente, certamente
avremmo letto sulle sue labbra un inno del tipo: « Noi ti salutiamo, piena di grazia, madre del Creatore del mondo intero; noi ti salutiamo vello benedetto che hai accolto
il Verbo di Dio come la rugiada; noi ti salutiamo, collina sacra da dove si è staccata la roccia senza intervento umano; noi ti salutiamo, dolce colomba, poiché il tuo Creatore è cresciuto nel tuo seno, come un bambino; noi ti salutiamo, luce di coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte».
E se non fu il cavaliere a riscoprire il sito, allora a trovare quell’affresco (ed evidentemente gli altri) - seguendo un’altra tradizione - furono i contadini che abbattevano la macchia nel feudo Rizzi, una volta che questo fu ripopolato. Insomma, furono i nuovi abitanti di San Marzano a recuperarla dall’oblìo. Ma chi dice che sia così?
Vogliamo crederlo, supportati da un’altra leggenda. Essa narra di una contesa sul luogo sacro tra gli abitanti di feudi limitrofi. Tale lite, però, si risolse il favore degli abitanti di San Marzano perché verso questo luogo erano rivolti gli occhi della Madonna.
Uno sguardo fisso - hanno rilevato -, ma non per questo meno fascinoso, anzi «ipnotico», hanno anche sostenuto. Uno sguardo che denota «una mestizia mal celata e sofferta». Forse per essere stata dimenticata per diverso tempo - osiamo pensare - o forse per aver visto spopolarsi un luogo, affidato alla sua protezione e ritornato, ora, pullulante di gente.
Sono tutti fuori dalla città i segreti dell’antico Salento: bisogna percorrere lame, entrare nelle grotte, respirare l’aria di masserie abbandonate per mettersi in piena sintonia con un mondo singolare, vivace, pulsante di vita… È qui che si annullano le distanze; che cogli le stratificazioni di popoli in una terra mediterranea; che riannodi il filo rosso di una storia che, di primo acchito, sembra interrotta. Prendiamo ad esempio San Marzano di San Giuseppe, nel Tarantino, al confine con la provincia di Brindisi. La cittadina è notissima per essere «l’unico paese albanese di Puglia», capace di conservare la lingua di chi vi giunse nel XV secolo con Giorgio Castriota Scanderbeg, impegnato nella lotta contro «i turchi infedeli». «La costruzione del paese rimonta al 1530 - scrisse a fine secolo XIX il geografo Gustavo Stafforello - allorché il capitano albanese
Demetrio Capuzzimati, acquistato dalla Corte di Napoli il feudo disabitato di San Marzano, e dal capitolo e Clero di Taranto, nello stesso anno 1530, il feudo limitrofo denominato Rizzi, vi stabilì i suoi seguaci e dipendenti».
Feudo non più abitato, dunque. Ma prima, chi popolava quella zona? Basta uscire fuori dal centro cittadino per rendersene conto; è sufficiente stare a Santa Maria delle Grazie per comprendere - si perdoni il bisticcio di parole - San Marzano prima di San Marzano.
È sulla strada per Grottaglie, infatti, che si trova il Santuario, dal quale è possibile rilevare una stratificazione di esperienze umane lunga secoli, prima ancora di cogliere
esperienze artistiche considerevoli, visto che la cripta conserva affreschi di non poco valore. «Il Santuario rupestre, attualmente non obbedisce a precisi schemi bizantini a causa di adattamenti per la particolare natura della roccia - hanno scritto gli studiosi locali -; mentre il corredo pittorico si attiene a stilemi iconografici», che richiamano l’esperienza artistica vetero-bizantina. Ma non si coglie appieno la bellezza del sito se non lo si inquadra nella lama; se non viene contestualizzato entro questo «solco erosivo poco profondo, tipico del paesaggio pugliese», ed entro quella caratterizzazione propria di terreni alluvionali, formatisi nel corso del tempo, che i geologi colgono in contrapposizione ai terreni rocciosi calcarei, tipici invece del territorio della Murgia. «Lungo le lame sono frequenti insediamenti rupestri», avvertono alcuni studiosi. «Talvolta gli insediamenti antropici risalgono al neolitico», aggiungono altri. E noi, del resto, di cosa parliamo?
A S. Maria delle Grazie, infatti, recenti scavi hanno evidenziato una frequentazione a partire dall’Età de Bronzo e sono state trovate anche testimonianze fittili di Età ellenistica. Ma se pensiamo che «si parte sempre dalla cripta affrescata, si parte sempre dall’edificio sacro, dal monumento in quanto tale», per giungere oltre, ecco che si deve necessariamente pensare anche qui al «monumento inserito in un certo contesto, in un habitat umano e sociale» e vi cogliamo un bell’esempio di «civiltà rupestre», per dirla con Cosimo Damiano Fonseca. Cogliamo l’importanza dell’agglomerato, in sé considerato, nel quale « si manifestavano varie forme di vita, legami e rapporti
sociali, in cui il monumento era l’esemplificazione dell’istanza religiosa, senza dubbio importante, ma non esaustiva della vita civile di coloro che vi abitavano». Avvertiamo, insomma, il problema storico complessivo, più che limitarlo a quello storico-artistico, che pure è considerevole.
«Questo centro rurale con abitazione in grotta ha una vita prospera, almeno fino al 1300 per poi decadere e spopolarsi», ha osservato Cosimo Monopoli, non prima di aver riferito che «la lama dal 1478 porta il nome “San Giorgio”, probabilmente derivante dalla dedicazione dal santo dell’ipogeo rupestre».
Ed infatti lo stesso studioso ha rilevato che «la costruzione della chiesa ipogea avviene, a partire dall’XI secolo, in due periodi: il primo fino al secolo XV, probabilmente con la dedicazione a San Giorgio e il secondo dal XVI secolo fino ai nostri giorni, dedicato alla Madonna delle Grazie». Due periodi, dunque, e due modi di concepire l’edificio sacro, con l’esperienza religiosa più antica che lì vuole un vestibolo, un’aula per l’assemblea, un nàos per l’offerta sacerdotale. A questa prima esperienza, del resto,
appartengono i tre affreschi, che fanno di questo luogo una tappa necessaria per quanti vogliono capire il Salento dei secoli andati: si nota San Giorgio a cavallo, Santa Barbara e quella Vergine col bambino, che non può non suscitare emozioni. Tre immagini e tre secoli di esperienza artistica, visto che il San Giorgio è probabilmente di fine secolo XIV, Santa Barbara è del XVI secolo mentre l’affresco delle Vergine col Bambino sembra il più antico, essendo databile alla fine del XIII secolo. Li riconosci subito, i santi, dai loro attributi iconografici. Forse che S. Giorgio sul cavallo non trafigge il drago? E S. Barbara non regge, anche qui, la piccola croce? E poi: basta leggere: Beta, alfa, ro… È l’inizio del suo nome.
«La Vergine è dipinta in trono ed è ritratta in posizione frontale. Indossa un maphorion azzurro dal bordo dorato d stelle, sopra una veste rossa…». Così inizia a descriverla
Monopoli nel suo saggio. Certamente più luminosa dovette scoprirla quel cavaliere che la leggenda vuole «miracolosamente guidato dal suo cane»
entro l’ipogeo ormai caduto nell’oblio, assieme a quelle zone ormai disabitate. Non sappiamo donde provenisse quel cavaliere. Fosse stato originario dell’Oriente, certamente
avremmo letto sulle sue labbra un inno del tipo: « Noi ti salutiamo, piena di grazia, madre del Creatore del mondo intero; noi ti salutiamo vello benedetto che hai accolto
il Verbo di Dio come la rugiada; noi ti salutiamo, collina sacra da dove si è staccata la roccia senza intervento umano; noi ti salutiamo, dolce colomba, poiché il tuo Creatore è cresciuto nel tuo seno, come un bambino; noi ti salutiamo, luce di coloro che siedono nelle tenebre e nell’ombra della morte».
E se non fu il cavaliere a riscoprire il sito, allora a trovare quell’affresco (ed evidentemente gli altri) - seguendo un’altra tradizione - furono i contadini che abbattevano la macchia nel feudo Rizzi, una volta che questo fu ripopolato. Insomma, furono i nuovi abitanti di San Marzano a recuperarla dall’oblìo. Ma chi dice che sia così?
Vogliamo crederlo, supportati da un’altra leggenda. Essa narra di una contesa sul luogo sacro tra gli abitanti di feudi limitrofi. Tale lite, però, si risolse il favore degli abitanti di San Marzano perché verso questo luogo erano rivolti gli occhi della Madonna.
Uno sguardo fisso - hanno rilevato -, ma non per questo meno fascinoso, anzi «ipnotico», hanno anche sostenuto. Uno sguardo che denota «una mestizia mal celata e sofferta». Forse per essere stata dimenticata per diverso tempo - osiamo pensare - o forse per aver visto spopolarsi un luogo, affidato alla sua protezione e ritornato, ora, pullulante di gente.
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